venerdì 29 luglio 2016

Academic archaeologists or storytellers?


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«Today’s archaeology requires new skills, new sensitivities for communicating effectively with the wider audience […] We are woefully unprepared for the challenges of an entirely new kind of archaeology. … The academic culture is becoming increasingly irrelevant to much of what contemporary archaeologists do. Yet we persists in training predominantly academic archaeologists… Professional archaeologists have indeed become performers on a public stage who work as sophisticated storytellers».

Brian Fagan
(Epilogue. In: B. Little (ed) Public Benefits of Archaeology, pp. 253-60. Gainesville etc.: University Press of Florida, 2002)

sabato 4 giugno 2016

L'analisi sociosemiotica della televisione: i programmi scientifici

Testo tratto dal saggio di Antonio Santangelo, "Sociosemiotica dell'audiovisivo", Aracne, Roma 2013, pp. 144-147
 
Ogni disciplina che si occupa di media studies ha le proprie tecniche per individuarli e descriverli. La Sociosemiotica si serve a questo scopo di una metodologia specifica, volta a desumerli partendo dall'analisi di un corpus molto ampio di testi. Più precisamente, rimanendo nell'ambito della comunicazione pubblica della scienza per mezzo dei programmi televisivi, il ricercatore sociosemiotico si premura di ricostruire quello che viene definito dagli specialisti come il rapporto tra testo e contesto (R. Grandi, "I mass media tra testo e contesto. Informazione, pubblicità, intrattenimento, consumo sotto analisi", Lupetti, Milano 1992), vale a dire la relazione tra i programmi stessi, i palinsesti in cui essi sono inseriti, l'eventuale offerta di contenuti simili nella programmazione di altri canali, i discorsi che su di essi vengono portati avanti da chi li produce - sotto forma di promo audiovisivi, di comunicati stampa, dei siti web appositamente sviluppati per promuoverli, delle eventuali interviste rilasciate da autori, conduttori e produttori - e, naturalmente, i commenti del pubblico, da quelli dei critici specializzati e degli studiosi, fino alle considerazioni degli spettatori comuni, che spesso si esprimono sui forum su Internet. Nei casi in cui si renda necessario, è inoltre possibile produrre forme di testualità artificiali, realizzate attraverso interviste "qualitative, focus group o tecniche di osservazione etnografica, sempre legate alle figure dei produttori e del pubblico. L'obiettivo, naturalmente, è valutare le somiglianze e le differenze tra tutti questi generi di discorsi, fino ad individuare una serie di regolarità, che costituiscono, per l'appunto, i tratti distintivi dei vari modelli culturali che vi danno origine.
 
 
 
Uno strumento molto utile, per guidare la costruzione del suddetto corpus di testi, è il noto modello della comunicazione di Roman Jakobson ("Saggi di linguistica generale", Feltrinelli, Milano 1966, pp. 181-218). Esso, infatti, evidenzia come il significato di un atto di comunicazione, quindi anche di un programma televisivo, possa essere determinato dal riferimento da parte di quest'ultimo a colui che lo ha prodotto, vale a dire il suo mittente, al suo destinatario, al canale di trasmissione attraversi cui esso viene trasferito, al codice con cui è stato costruito, alla sua stessa struttura interna o al contesto in cui viene scambiato. Quando si comunica, si possono formulare discorsi molto complessi, che parlano ognuno di questi argomenti e le posizioni che si assumono, come sempre accade, sono determinate da modelli culturali, che definiscono un insieme di regole socialmente condivise, a proposito di ciò che si può o che si deve dire dei sei elementi del modello di Jakobson.
Applicando questi ragionamenti al modello della televisione, il ricercatore sociosemiotico sa che per comprendere appieno il senso dei contenuti di un programma, è necessario ricostruire il rapporto di questi ultimi con ognuna delle tematiche appena riportate. Per prima cosa, egli cerca di evincerlo partendo da ciò che dice il programma stesso. Analizza quindi tutti i segni e le strutture discorsive che evidenziano l'immagine che di sé vogliono comunicare il canale televisivo e gli autori, confezionando il loro prodotto in un certo modo. Delinea, quindi, le caratteristiche del tipo di spettatore a cui essi dimostrano di volersi rivolgere (5). Poi cerca di capire che idea di televisione - e del tipo di esperienza mediatica che essa può proporre - venga portata avanti con il programma. Studia quindi la struttura del programma stesso e l'utilizzo che al suo interno viene fatto del linguaggio audiovisivo, dalla costruzione dell'immagine al sonoro, dal montaggio alle tecniche narrative, dalla recitazione (nel caso della fiction) alla conduzione o al coinvolgimento di eventuali ospiti ed esperti (6). Infine, naturalmente, si premura di comprendere ciò che il programma dice, a proposito del tema principale di cui si occupa (7), mettendo in evidenza il modo in cui esso vi fa riferimento, le sue strategie retoriche e argomentative ed, eventualmente, il suo ricorso alla tecnica dell'intertestualità (8).
A questo punto, il ricercatore sociosemiotico è in grado di formulare una serie di ipotesi, a proposito dei modelli culturali che determinano il funzionamento e il significato dei vari discorsi condotti, all'interno del programma televisivo che egli sta analizzando, a proposito del suo mittente, del suo ricevente, della televisione in generale, del suo linguaggio, dei suoi contenuti e di ciò che essi dicono a proposito del mondo circostante. Come anticipato, però, queste ipotesi vanno verificate, attraverso lo studio delle altre forme di testualità "contestuali", a cui abbiamo fatto riferimento sopra. Queste ultime appartengono ai tre ambiti di indagine che, nei television studies, vengono di solito denominati come studi sulla produzione, sull'offerta e sul consumo (F. Casetti e F. Di Chio, "Analisi della televisione", Bompiani, Milano 2001, pp. 7-10), che si rendono necessari per uscire dai confini del testo e poter così generalizzare i risultati delle singole analisi.
 
[...]
 
Sulla base dei ragionamenti appena riportati, si evince che lo studio della rappresentazione della scienza in televisione, condotto con i metodi di indagine delle Sociosemiotica, deve incentrarsi sull'analisi di un singolo programma, per poi allargarsi a quella della programmazione del canale che lo trasmette, passando per una riflessione a proposito del brand del canale stesso. E' quindi necessario capire come funzionano i contenuti della scienza dei canali televisivi concorrenti, sia quelli che parlano direttamente di questi temi, sia quelli che lo fanno indirettamente (per esempio trasmettendo film che utilizzano la scienza come espediente spettacolare e narrativo, o pubblicità che mettono in scena scienziati ed esperimenti scientifici, oppure ancora programmi che invitano gli scienziati stessi per parlare dei più svariati argomenti di attualità). Infine è necessario comprendere come i broadcaster e gli spettatori parlano di questi programmi, come li inquadrano e come li interpretano.
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NOTE
 
[5] La ricostruzione della figura del mittente e del ricevente del modello di Jakobson, quando si svolge l'analisi dei contenuti di un programma televisivo, avviene di solito facendo ricorso agli strumenti delineati da Umberto Eco, per riconoscere le figure dell'autore e del lettore modello di un testo (U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano 1979). [...] E' necessario, però, sottolineare come, soprattutto dal lato della ricostruzione dell'identità del ricevente, ma anche, per molti aspetti, per ciò che riguarda il lavoro sulla figura del mittente, un oggetto complesso come un programma televisivo può attivare diverse letture ed essere pensato secondo una logica incentrata su più autori e su più lettori modello.
 
[6] Per svolgere questo compito, il ricercatore sociosemiotico può servirsi di vari strumenti teorici e metodologici, codificati nell'ambito della cosiddetta semiotica strutturale, che fa capo principalmente alla scuola di Algirdas J. Greimas, i cui studi sono stati trasposti nell'ambito televisivo da vari autori, tra cui M. P. Pozzato in R. Grandi, op. cit. e M. P. Pozzato, "Lo spettatore senza qualità. competenze e modelli di pubblico rappresentati in tv", Nuova Eri, Roma 1995).
 
[7] Si parla, in questo caso, del topic e del focus principale del programma (T. Van Dijk, Text and context. Explorations in the semantics and pragmatics of discourse, Longman, London 1977. Tr. it. "Testo e contesto. Studi di semantica e pragmatica del discorso, Il Mulino, Bologna 1992).
 
[8] Il riferimento, più o meno esplicito, ma comunque chiaramente riconoscibile, all'interno del programma, ad un altro testo.

 

lunedì 25 aprile 2016

Il grande saccheggio

Vent’anni di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici e una straordinaria scoperta

 
Da sinistra: Maurizio Pellegrini, Fabio Isman e Alessandro Barelli
 
Venerdì 22 aprile, presso l’Auditorium della Fondazione Carivit di Viterbo, a Valle Faul, ho avuto il piacere di assistere alla conferenza dell’archeologo Maurizio Pellegrini, funzionario dellaSoprintendenza Archeologia Lazio ed Etruria Meridionale (già Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria Meridionale prima della Riforma Franceschini) e del giornalista e scrittoreFabio Isman (autore del libro “I predatori dell’arte perduta”). 
L’occasione, nell’ambito del ciclo di incontri “Etruscans – Gli Etruschi mai visti” (organizzato dall’Associazione Historia di Alessandro Barelli), ha permesso di ricordare vent’anni di attività di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici che l’Ufficio Sequestri della Soprintendenza ha condotto con grande dedizione e con straordinaria efficacia, ma spesso rimanendo nell’ombra, come dimostra lo scarso riscontro avuto dal punto di vista mediatico, e, mi permetto di dire, anche il tiepido plauso che i protagonisti diretti di questa battaglia contro i trafficanti d’arte hanno ricevuto anche dalle Istituzioni (si può leggere in questo blog un’intervista a Daniela Rizzo e a Maurizio Pellegrini, condotta dalla sottoscritta, nel 2013, per il mensile Archeo News). Eppure i risultati sono stati, quelli sì, sotto i riflettori del mondo: è sufficiente ricordare la restituzione all’Italia del Cratere di Eufronio, scavato illecitamente, venduto ed esposto fin dal 1972 presso il Metropolitan Museum di New York; oppure l’Afrodite di Morgantina, restituita dal Paul Getty Museum di Malibu che l’aveva ottenuta nel 1986 da Robin Symes per la cifra di 18 milioni di dollari, solo per citare due dei casi più clamorosi.
 
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sabato 20 febbraio 2016

La rappresentazione dei musei attraverso i mezzi visivi: dai documentari del Ventennio a Youtube

An excursus on the history of the documentary and the visual representations of the museum in Italy, from fascist period to the age of Youtube.
Paper presented at V Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, Viterbo, Museo Nazionale Etrusco, Rocca Albornoz, 26-27 settembre 2014

"Musei accoglienti. Una nuova cultura gestionale per i piccoli musei. Atti del V Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, a cura di Francesca Ceci e Caterina Pisu, Edizioni Archeoares, 2015




Roberto Rossellini, documentarista televisivo: "L'età del ferro"


Mi fa piacere ritornare su un argomento che ho avuto il piacere di trattare in un contributo che presentai con Maurizio Pellegrini (responsabile del Laboratorio di Didattica e Comunicazione visuale della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell'Etruria Meridionale) al Quinto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei (Viterbo, 26-27 settembre 2014), in gran parte incentrato sul documentario. In quella occasione, in particolare, mi interessai alla figura di Roberto Rossellini documentarista, un aspetto della produzione del grande regista che è ancora poco conosciuto dal grande pubblico. A tale proposito, riporto qui un brano del saggio di Stefano Masi ed Enrico Lancia, "I film di Roberto Rossellini", Roma 1987, in cui è riportata un'analisi del documentario in cinque puntate, L'età del ferro.

(...) L'apparato televisivo accoglie Roberto con una sorta di compiaciuto scetticismo. Lo mette nella condizione di realizzare i suoi progetti, ma gli offre budget di modestissima entità. Tanto che Roberto si ritrova in quella stessa situazione di indigenza produttiva che aveva dovuto affrontare all'epoca di Roma città aperta. Ma questi problemi, anziché deprimerlo, lo esaltano e lo inducono a sperimentare soluzioni sempre nuove.
Il primo atto del Rossellini televisivo è L'età del ferro (1964), storia della tecnologia umana in cinque puntate di un'ora circa. Egli segue l'evoluzione della cultura del ferro dall'antichità fino ai giorni nostri, ricostruendo le tappe principali della storia dell'uomo. Lo spunto è offerto dall'inaugurazione di un grande centro siderurgico a Taranto. Il budget è di cento milioni, ma una metà del costo viene coperta da una sponsorizzazione Italsider. Nelle vesti di producer figurano Ermanno Olmi e Tullio Kezich. Roberto Rossellini appare nei titoli di testa come supervisore mentre la regia è affidata a suo figlio Renzo, detto Renzino; si conclude in questo modo il percorso di allontanamento (almeno formale) di Roberto dalla sedia di regia, lentamente maturato negli anni passati. Egli non ha alcuna intenzione di mettersi da parte, anzi, è più che mai coinvolto nella realizzazione. Ma ci tiene a rinnegare il ruolo sacrale del regista, feticisticamente attaccato al suo trono. Rossellini scopre e valorizza il cinema come pensiero; l'ideazione, la ricerca, lo studio, la costruzione dell'impianto narrativo, sono fasi che paiono molto più importanti della regia, intesa nella sua accezione più classica. Una volta poste le premesse teoriche, la regia si riduce a mera esecuzione ed egli esprime la volontà di potersene disinteressare (anche se spesso vi è pienamente coinvolto). In L'età del ferro, Roberto compare al principio e alla fine di ciascuna puntata: tira le fila del discorso, ne rimarca gli aspetti salienti, introduce considerazioni diverse. Egli non teme l'immagine delle trasmissioni di studio; non teme di apparire come un mezzobusto parlante sullo sfondo di uno scaffale ricolmo di libri. L'iconografia della televisione "culturale" non lo spaventa: queste introduzioni discorsive sono altri tasselli del suo puzzle espositivo nel quale egli si serve di ogni tipo di materiale, senza paure, senza complessi. Il tessuto espositivo di "L'età del ferro" ci fa pensare ad un grande collage. Vi ritroviamo alcuni brani documentaristici girati ex-novo, immagini tratte da classici del cinema storico ( da Scipione l'Africano di Gallone a Napoleone ad Austerlitz di Abel Gance), sequenze rubate ai suoi stessi lavori (da Luciano Serra pilota a Paisà, a Germania anno zero), brevi sequenze recitate che drammatizzano alcuni passaggi del discorso e perfino lunghi capitoli di racconto. (...) Ciò che emerge dalle cinque puntate di L'età del ferro è soprattutto il ritrovato entusiasmo di Rossellini. Questa formula, nella quale convivono documentario e recitazione, è certamente la più adatta alle sue doti, alla sua sensibilità e perfino alla sua disorganicità. Essa gli consente di dedicare la massima attenzione ai momenti della storia che ritiene più toccanti e significativi; e d'altra parte gli consente di liquidare con quattro foto d'archivio ed una voce off i passaggi che meno lo intrigano.
Le cinque puntate di L'età del ferro furono messe in onda dalla RAI settimanalmente, il venerdì sera alle 21.15, sul secondo canale, a cominciare dal 19 marzo 1965. Ottennero un audience media di due milioni e seicentomila telespettatori per puntata, risultato apprezzabile soprattutto se si considera che contemporaneamente il primo canale trasmetteva cose assai ghiotte, come l'appuntamento settimanale con la prosa.

venerdì 19 febbraio 2016

Archeologia e Folkore (o cultura popolare)

LIBRI

Archaeology and Folklore 

di Amy Gazin-Schwartz, Cornelius J. Holtorf, London 1999, 2005





Archaeology and folklore are two of the many lenses through which the past is given meaning, and it is the aim of this volume to explore and understand differences and similarities in how archaeology and folklore create, and are created through, ideas about the past. In the intersections between these similarities and differences, we hope to find new lenses, through which we can begin to create alternative images of people’s histories.

venerdì 6 novembre 2015

Un vino "da museo"

Dal blog Museums Newspaper: Un vino "da museo"



Storia un vino, di archeologia sperimentale, di musei e di un legame indissolubile con una terra antica. Intervista a Francesco Mondini e a Maurizio Pellegrini

Synaulia e Il Centro del Suono hanno organizzato centinaia di banchetti in moltissimi musei ed aree archeologiche italiane ed europee (il Prahistorische Staatssamlung Museum di Monaco, l’ArchaologischerPark Regionalmuseum di Xanten, Germania, il Parco Archeologico di Baratti ePopulonia, il Museo Guarnacci di Volterra, solo per citarne alcuni), si sono occupati di rievocazioni di archeologia sperimentale svolte nei musei e negli anfiteatri di Monaco, Trier, Xanten, Aalen, Bonn, Bad Gogging, Mainz, Rosenheim e a Berlino nell'Altes Museum, oltre ad aver collaborato a numerosi documentari, programmi scientifici e film, soprattutto nelle scene di banchetto, per esempio in Sogno di una notte di mezza estate di Michael Hoffman, Il Gladiatore di Ridley Scott, Nativity di Catherine Hardwicke, Empire di Kim Manners.

Nei loro banchetti, però, c’era un problema: il vino. I vini prodotti con metodi moderni non erano certamente adatti per riprodurre in modo perfetto un banchetto ispirato all’epoca etrusca e romana, studiato in ogni minimo dettaglio e con l’attenta lettura delle fonti antiche.

E’ così che inizia la collaborazione con Francesco Mondini (Azienda agricola Tarazona Miriam), il quale, resosi conto che il vino servito durante i banchetti non era all’altezza della cucina di Egidio Forasassi, decide di dare vita ad una produzione sperimentale di vino prodotto nel modo più fedele possibile con il metodo in uso presso gli Etruschi.

In Italia, ormai da molti anni si stanno portando avanti ricerche storiche, archeologiche e botaniche sulle viti e sulla vinificazione delle origini. Questa branca di studi presenta aspetti interessanti anche sotto l’aspetto dello sviluppo economico locale e il progetto realizzato da Francesco Mondini nella campagna aretina, congiunge imprenditoria e cultura. Gli studi e le sperimentazioni di Mondini sono iniziate ben 15 anni fa e solo da poco ha finalmente visto la luce il Vinum Nerum, un rosso che Francesco ama definire una “spremuta d’uva”, in quanto non contiene solfiti, né alcun altro tipo di conservante. Nei quindici anni di test sono stati consultati storici, archeologi, dottori in agraria, geologi e mastri cocciai per ricreare le giare che servivano per la conservazione del vino.
Maurizio Pellegrini, in particolare, ha seguito da vicino il progetto avendone intuito le potenzialità anche dal punto di vista educativo e divulgativo. Grazie a lui, sono entrata in contatto con Francesco Mondini e sono stata invitata, insieme a Laura Patara (tour operator) e a Francesca Pontani(archeologa, redattrice web e membro del consiglio scientifico del Museo Archeologico delle Necropoli Rupestri di Barbarano Romano) a visitare l’azienda e a conoscere il metodo di vinificazione del vino Nerone e del vino Nerum.

La bellissima Azienda Tarazona ha vitigni di circa 80-90 anni che sono di Sangiovese, Canaiolo, Ciliegiolo, Albana, Trebbiano, Malvasia, che vengono sapientemente uniti in percentuali 85% uve rosse e 15% uve bianche. La vigna viene trattata con sistema biologico certificato e biodinamico, cioè concimata con trinciature e tenuta a prato con escrementi animali. Appena raccolta, l’uva viene pigiata una parte a mano e una parte messa in graspugliatrice (molto lenta) e poi una volta riunita, fatta fermentare in cantina in orci di terracotta per 12-15 giorni, follandola manualmente, specie i primi giorni, almeno 4-5 volte al giorno.


La "collina degli orci" presso l'azienda Tarazona di Arezzo

La "collina degli orci" vista dal basso
Francesco Mondini accanto agli orci interrati.

Avvenuta la totale trasformazione degli zuccheri in alcool, il mosto viene portato nella collina degli orci, dove sono posizionati sia gli orci coibentati con resine e cere da dove poi uscirà il Nerum, sia gli orci vetrificati da dove uscirà il Nerone (che ho avuto il piacere di assaggiare durante il banchetto magistralmente preparato da Egidio Forasassi).


I vitigni
Il Nerone viene messo sotto terra senza utilizzo di pompe, dove la temperatura costante, la quasi completa assenza di ossigeno, il buio e l’interscambio con la terra lo rendono un vino unico nei colori, nei profumi, nei sapori e nei retrogusti, veramente senza paragoni. Dopo 18 mesi verrà imbottigliato in magnum e tenuto altri 6 mesi in cantina prima di essere messo sul mercato.


Un magnifico panorama del vigneto


Nel novembre 2013, l’Unesco ha dichiarato Intangible Cultural Heritage la vinificazione in orci in Georgia, uno Paese che vinifica ancora come 5000 anni fa, e pertanto anche l’Azienda Tarazona ha potuto ricevere i permessi per poter commercializzare l’unico vino al mondo fatto con il metodo Mondini, che unisce storia e tecnologia.


Francesco Mondini videointervistato da Francesca Pontani
Per illustrare nel modo migliore il progetto Vinum Nerum, ho rivolto alcune domande a Francesco Mondini e a Maurizio Pellegrini.


Francesco Mondini, come è nata l’idea di riprodurre il vino etrusco?

Nel 2000 fui invitato ad un convivio etrusco-romano a Populonia da un caro amico che oltre che cucinare suona anche con i Synaulia (www.soundcenter.it). Alla fine della splendida serata con cena e musica nella necropoli, mi avvicinai al mio amico e obbiettai sulla veridicità del vino servito durante il convivio; ne nacque una bella discussione alla fine della quale decisi di dedicare una parte della vinificazione del nostro vino a esperimenti per arrivare a produrre un vino il più possibile simile a quello che bevevano i nostri avi. La totale assenza di aggiunte chimiche portava ad un gran numero di problemi che con il passare degli anni grazie oltre che ai nostri studi anche alla collaborazione con archeologi, dottori in agraria, geologi, enologi sono stati felicemente superati.


L'ingresso alla "cantina etrusca"
Come avviene il processso di vinificazione nelle giare?


Qui in Toscana il vino “Nerum”, dopo essere stato spremuto in cantina, riposa per almeno 1 anno in orci realizzati a mano da mastri cocciai, coibentati a mano con resine e cera, completamente interrati a 3 mt di profondità per poi tornare negli orci in cantina per almeno 6 mesi. Nel 2015, dopo 25 secoli, potremo gustare un vino vinificato con il metodo antico, quindi quello che ad oggi si può supporre si avvicini di più al vino di quell'epoca, di questa zona, sulla base del percorso di archeologia sperimentale da noi effettuato. I sapori e i profumi derivati dall’interscambio con la terra e con la coibentazione lo rendono un vino totalmente unico e la gradazione può arrivare fino a 15 gradi.


I grandi orci per la conservazione del vino.

Il vino è completamente naturale in quanto non contiene solfiti aggiunti, quanto è difficile ottenere questo risultato?

E' molto difficile e dopo anni di aceto, grazie ai vitigni che donano un uva già ben strutturata, grazie alla collaborazione di enologi, geologi e dottori in agraria siamo riusciti con grande igiene in cantina in primis e poi con l'aiuto di azoto e argon che eliminano l'aria e sopratutto i travasi in tempi ridottissimi, ad ottenere un prodotto con solforosa bassissima. La longevità di questo vino la stiamo studiando ma abbiamo campioni di 13 anni rimasti inalterati nel tempo.

Il vino prodotto è attualmente un rosso. Avete in programma anche la produzione di un bianco?

Come dicono alcuni archeologi il primo vino è stato il bianco, non so quale sia stato veramente il primo ma quest'anno abbiamo sperimentato il metodo Mondini anche sulle nostre uve bianche. Vista l'annata fantastica, un mix di albana, trebbiano e malvasia ed un vitigno sconosciuto porteranno nel 2017 ad assaporare il nostro primo vino bianco, sperimentato già nel 2003 e nel 2005.


L'interno della "cantina etrusca"
I vitigni sono quelli di suo nonno e risalgono quindi circa a 80 anni fa. E’ previsto per il futuro un’ulteriore fase del progetto che preveda anche l'utilizzo di vitigni più antichi?

Siamo in una costante fase di ricerca con archeologi come Maurizio Pellegrini ed anche con la comunità montana e l'istituto per la selvicoltura di vitigni antichi. Poiché i pochi esperimenti fatti non sono in vendita, per ora cerchiamo di apprendere i modi di riproduzione ed i vari innesti usati. Siamo in contatto anche con due aziende che in maremma producono l'ansonica o insulia che è un vitigno addirittura portato dai greci. Pensiamo il prossimo anno di usarla e fare un esperimento al posto della nostra bianca locale. L'obbiettivo sarà riprodurre il Nerum anche con vitigni antichi.

Quali saranno i canali per la distribuzione commerciale del vino? Dove si potra' reperire?

Ci stiamo preparando alla prima uscita, per cui tanta curiosità specialmente dall'estero con contatti dal Giappone dall'Inghilterra, da Singapore, dalla Germania e tanti altri posti, stiamo valutando tutte le richieste che ci arrivano. Noi abbiamo solo 170 Anfore di Nerum e circa 150 magum di Nerone, per cui visto la modesta quantità per noi sarebbe un grande onore partire con vendite alle aste dirette a collezionisti o amatori non solo del vino ma anche della storia che il vino ci tramanda. Siamo stati contattati anche da un distributore locale per il vino Nerone, ma comunque per ora si può reperirlo direttamente in azienda.


La sigillatura dell'orcio  
Maurizio Pellegrini, a che epoca risalgono le prime tracce della produzione del vino in Italia?

Negli ultimi anni le ricerche nel campo della paleobotanica sono effettivamente aumentate e rincorrerle, anche per i diretti interessati, è abbastanza complesso.
La cultura classica da sempre ha attribuito ai Fenici, che colonizzarono l'Italia attorno all'800 a.C., e successivamente a Greci e Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale e la recente scoperta di un vitigno coltivato circa tremila anni fa (1300 - 1100 a. C.) dalla civiltà Nuragica finalmente contraddice con valide prove tale teoria. Infatti presso un nuraghe nelle vicinanze di Cabras, presso Oristano, sono stati scoperti alcuni semi di vitigni di vite domestica probabilmente di origine locale o, forse, importata più anticamente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo di ricerca sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo cercando tracce per verificare possibili "parentele" tra le diverse specie di vitigni. I semi, di vernaccia e malvasia ritrovati in un "pozzo dispensa", sono stati datati con l'esame del carbonio 14 dagli studiosi dell'equipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità dell'Università di Cagliari e fanno ritenere che la coltura della vite nell'Isola fosse conosciuta sin dall'età del bronzo. Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati intorno a 3000 anni fa, età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica".
Invece alcune tracce di Vitis sylvestris, con forme di embrionale coltivazione, sono stati trovate anche nei siti della "Marmotta" sul lago di Bracciano datate fra il 5750 e il 5260 a.C. e di Sammardenchia-Cûeis, in provincia di Udine, un sito datato tra il 5600 e il 4500 a.C. circa.
Altri resti di vite selvatica sono stati rinvenuti nei siti di Piancada (Udine) e Lugo di Romagna (Ravenna), entrambi risalenti al Neolitico antico.
Nella direzione di una origine indigena della viticoltura in Italia vanno anche le ricerche praticate nell'ambito del "Progetto Vinum" mediante lo studio degli aspetti legati all’origine e all’evoluzione della viticoltura, al processo di produzione del vino nell’antichità e con le analisi dei genotipi delle viti autoctone campionate in prossimità dei siti etruschi e romani. 


La preziosa anforetta del Nerum


La sperimentazione condotta dall’Azienda Tarazona di Francesco Mondini è un interessante esempio di connessione tra nuove forme di imprenditoria e cultura. Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri? Penso, per esempio, al turismo culturale o alla possibilità di realizzare esperienze didattiche all’interno dell’azienda.

L'esperienza portata avanti dall’Azienda Tarazona apre veramente nuove prospettive; per prima cosa la vinificazione praticata dagli amici Francesco Mondini ed Egidio Forasassi demitizza finalmente la convinzione comune che il cibo dell'antichità non possa essere gradito anche ai giorni nostri. Effettivamente gran parte del vino antico aveva una gradazione alquanto elevata, questo perché in questo modo poteva essere conservato più a lungo e per questo motivo doveva essere diluito ed aromatizzato. Ma, sono certo, che in condizioni ottimali e sempre legate al ceto, il vino doveva essere anche molto buono. Quindi bere oggi un vino che si avvicini alla vinificazione antica ma che abbia anche un gusto "moderno" non può che essere considerato un azione culturale ed avvicinarci di più alla nostra storia come apprezzare un affresco in un sito o un antico vaso nella vetrina di un museo.  Un futuro sviluppo può essere senz'altro quello del turismo culturale da effettuarsi nelle aziende che seguiranno questo impulso ed esperienze didattiche accompagneranno indubbiamente questa nuova prospettiva imprenditoriale.

I musei, le aree archeologiche, le istituzioni culturali che sono interessate alla realizzazione di eventi con Synaulia e con l’Azienda Agricola Tarazona possono utilizzare i seguenti contatti:

lunedì 28 settembre 2015

Come difendere il patrimonio dell’umanità?

Il convegno di European Museum Forum presso l'EXPO di Milano il prossimo 4 ottobre



Domenica 4 ottobre, ore 14, presso l’EXPO di Milano, Cascina Triulza, sala conferenze 100, si svolgerà il convegno “Come difendere il patrimonio dell’umanità?”, organizzato da European Museum Forum e promosso dall’on. Roberto Rampi, VII Commissione Cultura alla Camera.

Il convegno si propone di promuovere la discussione su come fermare le distruzioni del patrimonio culturale dell’umanità, iniziando con il quantificare il giro d’affari mosso dal mercato illecito dei reperti trafugati e cercando di definire linee da adottare nelle politiche nazionali e comunitarie.

I punti che si analizzeranno saranno i seguenti:

• il rafforzamento della lotta al traffico illegale di reperti archeologici che sono patrimonio storico di tutta la nostra civiltà
• la ricerca di strumenti di conoscenza e approfondimento di un tema delicato e spesso sottovalutato e per sensibilizzare il tessuto sociale alla tutela del patrimonio artistico – culturale
• la promozione e la valorizzazione di luoghi preziosi per la nostra memoria storica ed opere scarsamente accessibili al pubblico.

Il convegno prevede la partecipazione di 4/5 relatori più una tavola rotonda finale in cui si identifichino possibili linee di politiche di contrasto e si evidenzi il ruolo fondamentale della valorizzazione per la tutela.
Il convegno è indirizzato a tutti i cittadini che riconoscono nei beni archeologici una parte preziosa del nostro patrimonio storico, con una particolare attenzione agli addetti ai lavori.

I relatori:

on. Roberto Rampi, Commissione Cultura Camera dei Deputati

Avv. Manlio Frigo - membro del Committee on Cultural Heritage Law dell’International Law Association, esperto consulente della Commissione dell’Unione europea, Unesco e Unidroit

Dott. Samer Abdel Ghafour, archeologo siriano, Fondatore del network Archaeology in Syria http://ainsyria.net/ 

Sen. Adele Gambaro,  Commissione Cultura del Consiglio d’Europa

Modera l’incontro la Dott.ssa Maria Cristina Vannini, European Museum Forum


Su Twitter e sugli altri social seguite l’hashtag #cultureforpeace e condividete la vostra opinione.

Per ulteriori approfondimenti:


http://cascina.fondazionetriulza.org/en/initiative/how-to-defend-the-heritage-of-humanity/5822/

copyright http://ainsyria.net/
Grazie a Cristina Maranesi per le informazioni che mi ha cortesemente inviato.